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Giosuè Carducci - Nostalgia

 

 

 

Giosuè Carducci - Nostalgia

 

 

Nostalgia

 

Tra le nubi ecco il turchino
Cupo ed umido prevale:
Sale verso l’Apennino
Brontolando il temporale.
Oh se il turbine cortese
Sovra l’ala aquilonar
Mi volesse al bel paese
Di Toscana trasportar!

Non d’amici o di parenti
Là m’invita il cuore e il volto:
Chi m’arrise a i dí ridenti
Ora è savio od è sepolto.
Né di viti né d’ulivi
Bel desío mi chiama là:
Fuggirei da’ lieti clivi
Benedetti d’ubertà.

De le mie cittadi i vanti
E le solite canzoni
Fuggirei: vecchie ciancianti
A marmorëi balconi!
Dove raro ombreggia il bosco
Le maligne crete, e al pian
Di rei sugheri irto e fósco
I cavalli errando van,

Là in maremma ove fiorío
La mia triste primavera,
Là rivola il pensier mio
Con i tuoni e la bufera:
Là nel ciel nero librarmi
La mia patria a riguardar,
Poi co ’l tuon vo’ sprofondarmi
Tra quei colli ed in quel mar.

 

 

 

 

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Alessandria - Giosuè Carducci

 


Alessandria


di Giosuè Carducci



Ne l'aula immensa di Lussor, su 'l capo roggio di Ramse il mistico serpente sibilò ritto e 'l vulture a sinistra volò stridendo, e da l'immenso serapèo di Memfi, cui stanno a guardia sotto il sol candente seicento sfingi nel granito argute, Api muggío, quando da i verdi immobili papiri di Mareoti al livido deserto sonò, tacendo l'aure intorno, questo greco peana. - Ecco, venimmo a salutarti, Egitto, noi figli d'Elle, con le cetre e l'aste. Tebe, dischiudi le tue cento porte ad Alessandro. Noi radduciamo a Giove Ammone un figlio ch'ei riconosca; questo caro alunno de la Tessaglia, questa bella e fiera stirpe d'Achille. Come odoroso läureto ondeggia a lui la chioma: la sua rosea guancia par Tempe in fiore: ha ne' grand'occhi il sole ch' a Olimpia ride: ha de l'Egeo la radïante in viso pace diffusa; se non quando, bianche nuvole, i sogni passanvi di gloria e poesia. Ei de la Grecia a la vendetta balza leon da l'aspra tessala falange, sgomina carri ed elefanti, abbatte satrapi e regi. Salve, Alessandro, in pace e in guerra iddio! A te la cetra fra le eburnee dita, a te d'argento il fulgid'arco in pugno, presente Apollo! A te i colloqui di Stagira, i baci a te co' serti de le ionie donne, a te la coppa di Lieo spumante, a te l'Olimpo. Lisippo in bronzo ed in colori Apelle ti tragga eterno: ti sollevi Atene, chete de' torvi demagoghi l'ire, al Partenone. Noi ti seguiamo: il Nilo in vano occulta i dogmi e il capo a la possanza nostra: noi farem pace qui tra i numi e al mondo luce comune. E se ti piaccia aggiogar tigri e linci, Bacco novello, noi verrem cantando, te duce, in riva al sacro Gange i sacri canti d'Omero. - Tale il peana de gli achei sonava. E il giovin duce, liberato il biondo capo da l'elmo, in fronte a la falange guardava il mare. Guardava il mare e l'isola di Faro innanzi, a torno il libico deserto interminato: dal sudato petto l'aurea corazza sciolse, e gittolla splendida nel piano: - Come la mia macedone corazza stia nel deserto e a' barbari ed a gli anni regga Alessandria. - Disse; ed i solchi a le nascenti mura ei disegnava per ottanta stadi, bianco spargendo su le flave arene fior di farina. Tale il nipote del Pelíde estrusse la sua cittade; e Faro, inclito nome di luce al mondo, illuminò le vie d'Africa e d'Asia. E non il flutto del deserto urtante e non la fuga de i barbarici anni valse a domare quella balda figlia del greco eroe. Alacre, industre, a la sua terza vita ella sorgea, sollecitando i fati, qual la vedesti, o pellegrin poeta, ammiratore, quando fuggendo la incombente notte di tirannia, pien d'inni il caldo ingegno, ivi chiedendo libertade e luce a l'orïente, e su le tombe di turbanti insculte star la colonna di Pompeo vedesti come la forza del pensier latino su 'l torbid'evo. Deh, le speranze de l'Egitto e i vanti nel tuo volume vivano, o poeta! Oggi Tifone l'ire del deserto agita e spira. Sepolto Osiri, il latratore Anubi morde a i calcagni la fuggente Europa, e avanti chiama i bestïali numi a le vendette. Ahi vecchia Europa, che su 'l mondo spargi l'irrequïeta debolezza tua, come la triste fisa a l'orïentesfinge sorride!






 

 

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Giosue' Carducci - Alla Vittoria

 

 

 

ALLA  VITTORIA 

di Giosue' Carducci

 

Scuotesti, vergin divina, l'auspice
ala su gli elmi chini de i pèltasti,
poggiasti il ginocchio a lo scudo,
aspettanti con l'aste protese?

o pur volasti davanti l'aquile,
davanti i flutti de' marsi militi,
co 'l miro fulgor respingendo
gli annitrenti cavalli de i Parti?

Raccolte or l'ali, sopra la galea
del vinto insisti fiera co 'l poplite,
qual nome di vittorïoso
capitano su 'l clipeo scrivendo?

È d'un arconte, che sovra i despoti
gloriò le sante leggi de' liberi?
d'un consol, che il nome i confini
e il terror de l'impero distese?

Vorrei vederti su l'Alpi, splendida
fra le tempeste, bandir ne i secoli:
"O popoli, Italia qui giunse
vendicando il suo nome e il diritto."

Ma Lidia intanto de i fiori ch'èduca
mesti l'ottobre da le macerie
romane t'elegge un pio serto,
e, ponendol soave al tuo piede,

- Che dunque - dice - pensasti, o vergine
cara, là sotto ne la terra umida
tanti anni? sentisti i cavalli
d'Alemagna su 'l greco tuo capo? -

- Sentii - risponde la diva, e folgora -
però ch'io sono la gloria ellenica,
io sono la forza del Lazio
traversante nel bronzo pe' tempi.

Passâr l'etadi simili a i dodici
avvoltoi tristi che vide Romolo
e sursi "O Italia" annunziando
"i sepolti son teco e i tuoi numi!"

Lieta del fato Brescia raccolsemi,
Brescia la forte, Brescia la ferrea,
Brescia leonessa d'Italia
beverata nel sangue nemico.

 

 

 

                                   

 

 

 

 

 

 

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Poesie di Giosue' Carducci (1850-1900)

Poesie di Giosue' Carducci (1850-1900)

 

Nec tantum ingenio quantum servire dolori

Cogor et aetatis tempora dura queri.

Hic mihi conteritur vitae modus, haec mea fama est:

Hinc capio nomen carminis ire mei

 

 

                                              Poesie di Giosue' Carducci (1850-1900)

 

                                              

Davanti a San Guido di Giosuè Carducci

 

 

 

Davanti a San Guido

di Giosuè Carducci

 

I cipressi che a Bólgheri alti e schietti
Van da San Guido in duplice filar,
Quasi in corsa giganti giovinetti 
Mi balzarono incontro e mi guardar. 
Mi riconobbero, e— Ben torni omai —
Bisbigliaron vèr' me co 'l capo chino — 
Perché non scendi ? Perché non ristai ? 
Fresca è la sera e a te noto il cammino. 
Oh sièditi a le nostre ombre odorate
Ove soffia dal mare il maestrale:
Ira non ti serbiam de le sassate
Tue d'una volta: oh non facean già male! 
Nidi portiamo ancor di rusignoli:
Deh perché fuggi rapido cosí ? 
Le passere la sera intreccian voli
A noi d'intorno ancora. Oh resta qui! — 
— Bei cipressetti, cipressetti miei,
Fedeli amici d'un tempo migliore,
Oh di che cuor con voi mi resterei—
Guardando lor rispondeva — oh di che cuore ! 
Ma, cipressetti miei, lasciatem'ire:
Or non è piú quel tempo e quell'età.
Se voi sapeste!... via, non fo per dire,
Ma oggi sono una celebrità. 
E so legger di greco e di latino,
E scrivo e scrivo, e ho molte altre virtú:
Non son piú, cipressetti, un birichino,
E sassi in specie non ne tiro piú. 
E massime a le piante. — Un mormorio
Pe' dubitanti vertici ondeggiò
E il dí cadente con un ghigno pio
Tra i verdi cupi roseo brillò. 
Intesi allora che i cipressi e il sole
Una gentil pietade avean di me,
E presto il mormorio si fe' parole:
— Ben lo sappiamo: un pover uom tu se'. 
Ben lo sappiamo, e il vento ce lo disse
Che rapisce de gli uomini i sospir,
Come dentro al tuo petto eterne risse
Ardon che tu né sai né puoi lenir. 
A le querce ed a noi qui puoi contare
L'umana tua tristezza e il vostro duol.
Vedi come pacato e azzurro è il mare,
Come ridente a lui discende il sol! 
E come questo occaso è pien di voli,
Com'è allegro de' passeri il garrire!
A notte canteranno i rusignoli:
Rimanti, e i rei fantasmi oh non seguire;
I rei fantasmi che da' fondi neri
De i cuor vostri battuti dal pensier
Guizzan come da i vostri cimiteri
Putride fiamme innanzi al passegger.
Rimanti; e noi, dimani, a mezzo il giorno,
Che de le grandi querce a l'ombra stan
Ammusando i cavalli e intorno intorno
Tutto è silenzio ne l'ardente pian,
Ti canteremo noi cipressi i cori
Che vanno eterni fra la terra e il cielo:
Da quegli olmi le ninfe usciran fuori
Te ventilando co 'l lor bianco velo;
E Pan l'eterno che su l'erme alture
A quell'ora e ne i pian solingo va
Il dissidio, o mortal, de le tue cure
Ne la diva armonia sommergerà. —
Ed io—Lontano, oltre Apennin, m'aspetta
La Tittí — rispondea; — lasciatem'ire.
È la Tittí come una passeretta, 
Ma non ha penne per il suo vestire. 
E mangia altro che bacche di cipresso; 
Né io sono per anche un manzoniano
Che tiri quattro paghe per il lesso.
Addio, cipressi! addio, dolce mio piano! — 
— Che vuoi che diciam dunque al cimitero
Dove la nonna tua sepolta sta? — 
E fuggíano, e pareano un corteo nero
Che brontolando in fretta in fretta va. 
Di cima al poggio allor, dal cimitero,
Giú de' cipressi per la verde via,
Alta, solenne, vestita di nero
Parvemi riveder nonna Lucia: 
La signora Lucia, da la cui bocca,
Tra l'ondeggiar de i candidi capelli,
La favella toscana, ch'è sí sciocca
Nel manzonismo de gli stenterelli,
Canora discendea, co 'l mesto accento 
De la Versilia che nel cuor mi sta,
Come da un sirventese del trecento,
Piena di forza e di soavità. 
O nonna, o nonna! deh com'era bella
Quand'ero bimbo! ditemela ancor,
Ditela a quest'uom savio la novella
Di lei che cerca il suo perduto amor! 
— Sette paia di scarpe ho consumate
Di tutto ferro per te ritrovare: 
Sette verghe di ferro ho logorate
Per appoggiarmi nel fatale andare: 
Sette fiasche di lacrime ho colmate,
Sette lunghi anni, di lacrime amare:
Tu dormi a le mie grida disperate,
E il gallo canta, e non ti vuoi svegliare. 
— Deh come bella, o nonna, e come vera
È la novella ancor! Proprio cosí.
E quello che cercai mattina e sera
Tanti e tanti anni in vano, è forse qui,
Sotto questi cipressi, ove non spero, 
Ove non penso di posarmi piú: 
Forse, nonna, è nel vostro cimitero 
Tra quegli altri cipressi ermo là su. 
Ansimando fuggía la vaporiera
Mentr'io cosí piangeva entro il mio cuore;
E di polledri una leggiadra schiera
Annitrendo correa lieta al rumore. 
Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo 
Rosso e turchino, non si scomodò: 
Tutto quel chiasso ei non degnò d'un guardo
E a brucar serio e lento seguitò.

La poesia prende spunto da un viaggio in treno compiuto dallo stesso Carducci per tornare a Bologna. Durante il percorso, nel cuore della Maremma toscana, il poeta ricorda i luoghi dell'infanzia, con i cipressi alti e superbi che da Bolgheri vanno a San Guido

 

 

 

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