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Il Giogo - di Gabriele d'Annunzio

 

 

 

Il Giogo 

 

di Gabriele d'Annunzio

 

Quella sua chioma, volgente

su da la fronte regale

cui cingeva l'immortale

Tristezza divinamente,

 

mi ricordava il tesoro

de le foreste profonde

ove l'Autunno profonde

tra porpore cupe l'oro.

 

E gli occhi, remoti in cavi

cerchi d'ombra e di mistero,

cui tanto il sogno e il pensiero

facean le palpebre gravi,

 

non aveano un'infinita

calma di tarde acque stigie?

Entro io vi scorgea l'effigie

de la morte, ne la vita.

 

E le labbra mai concesse

(la vita dà tali frutti!)

ov'erano insieme tutti

i rifiuti e le promesse,

 

da l'invincibile orgoglio

con suggel rigido chiuse

tacevano, ma ben use

a l'alta parola VOGLIO.

 

Ampia era la stanza. Aveva

qualche alito veemente

la sera; che di repente

i cortinaggi scoteva

 

con uno strano susurro.

Si sfogliavan su 'l balcone

le rose, ma le corone

de gli astri ardean ne l'azzurro

 

con un fulgore che parve

insolito a gli occhi miei.

Tutto, allora, a gli occhi miei

insolito e grande parve;

 

e le voci de la sera

vennero tutte a la mia

anima. Io dissi: - Maria! -

Dissi. E quel nome non era

 

che un soffio, ma in sé portava

una immensità di cose

sovrane. E mentre le rose

morivano e palpitava

 

il cielo ed ella era muta,

io sentii pormi il suo giogo.

Ogni scienza del luogo

e del tempo fu perduta.

 

E nulla piú, veramente,

a me parve ch'esistesse.

E quelle voci sommesse

tacquero. Ne la mia mente

 

non balenò che un pensiero

su l'anima sbigottita.

Da quell'attimo la vita

non ebbe che un sol mistero.

 

Ella cosí pose il giogo

a l'artefice superbo.

Ed ella non disse verbo.

Splendeva come in un rogo.

 

 

 

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